CASE OF HIRSI JAMAA AND OTHERS v. ITALY - [Italian Translation] by the Italian Ministry of Justice
Karar Dilini Çevir:

Traduzione © a cura del Ministero della Giustizia, Direzione generale del contenzioso e dei diritti umani, eseguita da Martina Scantamburlo, Rita Pucci e Rita Carnevali, funzionari linguistici

Permission to re-publish this translation has been granted by the Italian Ministry of Justice for the sole purpose of its inclusion in the Court’s database HUDOC

CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO
GRANDE CAMERA
CAUSA Hirsi Jamaa e ALTRI c. Italia
(Ricorso n. 27765/09)
SENTENZA
STRASBURGO
23 febbraio 2012

Questa sentenza è definitiva. Può subire modifiche di forma.

Nella causa Hirsi Jamaa e altri c. Italia,
La Corte europea dei diritti dell’uomo, riunita in una Grande Camera composta da:
Nicolas Bratza, presidente,
Jean-Paul Costa,
Françoise Tulkens,
Josep Casadevall,
Nina Vajić,
Dean Spielmann,
Peer Lorenzen,
Ljiljana Mijović,
Dragoljub Popović,
Giorgio Malinverni,
Mirjana Lazarova Trajkovska,
Nona Tsotsoria,
Işıl Karakaş,
Kristina Pardalos,
Guido Raimondi,
Vincent A. de Gaetano,
Paulo Pinto de Albuquerque, giudici,
e da Michael O’Boyle, cancelliere aggiunto,
Dopo aver deliberato in camera di consiglio il 22 giugno 2011 e il 19 gennaio 2012,
Rende la seguente sentenza, adottata in quest’ultima data:

PROCEDURAAll’origine della causa vi è un ricorso (n. 27765/09) presentato contro la Repubblica italiana e con cui undici cittadini somali e tredici cittadini eritrei («i ricorrenti»), i cui nomi e date di nascita sono riportati nella lista allegata alla presente sentenza, hanno adito la Corte il 26 maggio 2009 in applicazione dell’articolo 34 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali («la Convenzione»).I ricorrenti sono rappresentati dagli avv. A.G. Lana e A. Saccucci, del foro di Roma. Il Governo italiano («il Governo») è rappresentato dal suo agente, E. Spatafora, e dal suo co-agente, S. Coppari.I ricorrenti sostenevano in particolate che il loro trasferimento verso la Libia da parte delle autorità italiane aveva violato gli articoli 3 della Convenzione e 4 del Protocollo n. 4, e denunciavano l’assenza di un ricorso conforme all’articolo 13 della Convenzione, che avrebbe permesso loro di fare esaminare i motivi di ricorso sopra citati.Il ricorso è stato assegnato alla seconda sezione della Corte (articolo 52 § 1 del regolamento della Corte). Il 17 novembre 2009 una camera di tale sezione ha deciso di comunicare il ricorso al Governo. Il 15 febbraio 2011 la camera, composta dai seguenti giudici: Françoise Tulkens,presidente, Ireneu Cabral Barreto, Dragoljub Popović, Nona Tsotsoria, Isil Karakas, Kristina Pardalos, Guido Raimondi,e da Stanley Naismith, cancelliere di sezione, ha rimesso la causa alla Grande Camera, in quanto nessuna delle parti si è opposta (articoli 30 della Convenzione e 72 del regolamento).La composizione della Grande Camera è stata decisa conformemente agli articoli 27 §§ 2 e 3 della Convenzione e 24 del regolamento.Come consentito dall’articolo 29 § 1 della Convenzione, è stato deciso che la Grande Camera si sarebbe pronunciata contestualmente sulla ricevibilità e sul merito del ricorso.Sia i ricorrenti che il Governo hanno depositato delle osservazioni scritte sul merito della causa. All’udienza, ciascuna delle parti ha risposto alle osservazioni dell’altra (articolo 44 § 5 del regolamento). Sono pervenute delle osservazioni scritte anche da parte dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (HCR), di Human Rights Watch, della Columbia Law School Human Rights Clinic, del Centro di Consulenza sui Diritti Individuali in Europa (Centre AIRE), di Amnesty International nonché della Fédération internationale des ligues des droits de l’homme (FIDH), che agiscono collettivamente. Il presidente della camera li aveva autorizzati ad intervenire in applicazione dell’articolo 36 § 2 della Convenzione. Sono pervenute delle osservazioni anche da parte dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite ai diritti dell’uomo (HCDH), che il presidente della Corte aveva autorizzato a intervenire. L’HCR è stato inoltre autorizzato a partecipare alla procedura orale.Una pubblica udienza si è svolta al Palazzo dei Diritti dell’Uomo, a Strasburgo, il 22 giugno 2011 (articolo 59 § 3 del regolamento). Sono comparsi:

– per il Governo
S. Coppari, co-agente,
G. Albenzio, avvocato dello Stato;

– per i ricorrenti
A.G. Lana, A Saccucci, avvocati,
A. Sironi, assistente;

– per l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati,
terzi intervenienti
M. Garlick, capo dell’unità per la politica generale e il sostegno giuridico, Ufficio per l’Europa, avvocato;
C. Wouters, consulente principale in diritto dei rifugiati, Dvisione della protezione nazionale, S.Boutruche, consulente giuridico dell’unità di sostegno politica e giuridica, Ufficio per l’Europa, consiglieri.

La Corte ha sentito le dichiarazioni dei sigg. Coppari, Albenzio, Lana, Saccucci e Garlick, nonché le risposte degli stessi alle domande poste dai giudici.

IN FATTO

I. LE CIRCOSTANZE DEL CASO DI SPECIE

A. L’intercettazione e il rinvio dei ricorrenti in Libia.

9. I ricorrenti, undici cittadini somali e tredici cittadini eritrei, fanno parte di un gruppo di circa duecento persone che ha lasciato la Libia a bordo di tre imbarcazioni allo scopo di raggiungere le coste italiane.
10. Il 6 maggio 2009, quando le imbarcazioni si trovavano a trentacinque miglia marine a sud di Lampedusa (Agrigento), ossia all’interno della zona marittima di ricerca e salvataggio («zona di responsabilità SAR») che rientra nella giurisdizione di Malta, furono avvicinate da tre navi della Guardia di finanza e della Guardia costiera italiane.
11. Gli occupanti delle imbarcazioni intercettate furono trasferiti sulle navi militari italiane e ricondotti a Tripoli. I ricorrenti affermano che, durante il viaggio, le autorità italiane non li hanno informati della loro vera destinazione e non hanno compiuto alcuna procedura di identificazione.
Tutti i loro effetti personali, ivi compresi alcuni documenti attestanti la loro identità, furono confiscati dai militari.
12. Una volta arrivati al porto di Tripoli, dopo dieci ore di navigazione, i migranti furono consegnati alle autorità libiche. Secondo la versione dei fatti presentata dai ricorrenti, questi si opposero alla loro consegna alle autorità libiche, ma furono obbligati con la forza a lasciare le navi italiane.
13. Durante una conferenza stampa tenuta il 7 maggio 2009, il ministro dell’Interno italiano dichiarò che le operazioni di intercettazione delle imbarcazioni in alto mare e di rinvio dei migranti in Libia facevano seguito all’entrata in vigore, il 4 febbraio 2009, di accordi bilaterali conclusi con la Libia, e rappresentavano una svolta importante nella lotta contro l’immigrazione clandestina. Il 25 maggio 2009, in occasione di un intervento davanti al Senato, il ministro indicò che, tra il 6 e il 10 maggio 2009, più di 471 migranti clandestini erano stati intercettati in alto mare e trasferiti verso la Libia conformemente agli accordi bilaterali suddetti. Dopo aver spiegato che le operazioni erano state condotte in applicazione del principio di cooperazione tra Stati, il ministro affermò che la politica di rinvio costituiva un metodo molto efficace di lotta contro l’immigrazione clandestina. Tale politica scoraggiava le organizzazioni criminali legate al traffico illecito e alla tratta delle persone, contribuiva a salvare delle vite in mare e riduceva sensibilmente gli sbarchi di clandestini sulle coste italiane, sbarchi che, nel maggio 2009, erano stati cinque volte meno numerosi che nel maggio 2008, secondo il ministro dell’Interno.
14. Durante l’anno 2009, l’Italia procedette a nove intercettazioni di clandestini in alto mare conformemente agli accordi bilaterali con la Libia.

B. La sorte dei ricorrenti e i loro contatti con i loro rappresentanti

15. Secondo le informazioni trasmesse alla Corte dai rappresentanti dei ricorrenti due di essi, Mohamed Abukar Mohamed e Hasan Shariff Abbirahman (rispettivamente n. 10 e n. 11 della lista allegata alla presente sentenza), sono deceduti dopo i fatti in circostanze sconosciute.

16. Dopo la presentazione del ricorso, gli avvocati hanno potuto mantenere dei contatti con gli altri ricorrenti. Questi erano raggiungibili telefonicamente e tramite posta elettronica.
Tra giugno e ottobre 2009, a quattordici di essi (indicati sulla lista) è stato accordato lo status di rifugiato dall’ufficio dell’HCR di Tripoli.

17. A seguito della rivolta scoppiata in Libia nel febbraio 2011 e che ha spinto molte persone a fuggire dal Paese, la qualità dei contatti tra i ricorrenti e i loro rappresentanti è peggiorata. Gli avvocati sono attualmente in contatto con sei dei ricorrenti: Ermias Berhane (n. 20 della lista) è riuscito a raggiungere clandestinamente le coste italiane. Il 21 giugno 2011 la Commissione territoriale di Crotone gli ha accordato lo status di rifugiato; Habtom Tsegay (n. 19 della lista) si trova attualmente al campo di Choucha, in Tunisia. Desidera raggiungere l’Italia; Kiflom Tesfazion Kidan (n. 24 della lista) risiede a Malta; Hayelom Mogos Kidane e Waldu Habtemchael (rispettivamente n. 23 e n. 13 della lista) risiedono in Svizzera, dove attendono una risposta allo loro domanda di protezione internazionale; Roberl Abzighi Yohannes (n. 21 della lista) risiede nel Benin.

II. IL DIRITTO INTERNO PERTINENTE

A. Il codice della navigazione

18. L’articolo 4 del codice della navigazione del 30 marzo 1942, modificato nel 2002, recita:

«Le navi italiane in alto mare e gli aeromobili italiani in luogo o spazio non soggetto alla sovranità di alcuno Stato sono considerati come territorio italiano.».

B. Gli accordi bilaterali tra l’Italia e la Libia

19. Il 29 dicembre 2007 l’Italia e la Libia firmarono a Tripoli un accordo bilaterale di cooperazione per la lotta contro l’immigrazione clandestina. Lo stesso giorno, i due Paesi sottoscrissero anche un Protocollo addizionale che fissava le modalità operative e tecniche dell’esecuzione di detto accordo. L’articolo 2 dell’accordo recita:

[Traduzione (in francese. N.d.T.) della cancelleria]

«L’Italia e la Grande Giamahiria [araba libica popolare socialista] si impegnano a organizzare delle pattuglie marittime per mezzo di sei navi messe a disposizione, temporaneamente, dall’Italia. A bordo delle navi verranno imbarcati degli equipaggi misti, formati da personale libico e da agenti di polizia italiani, ai fini dell’addestramento, della formazione e dell’assistenza tecnica per l’utilizzo e la manutenzione delle navi. Le operazioni di controllo, ricerca e salvataggio saranno condotte nei luoghi di partenza e di transito delle imbarcazioni destinate al trasporto di immigrati clandestini, sia nelle acque territoriali libiche che nelle acque internazionali, nel rispetto delle convenzioni internazionali vigenti e secondo le modalità operative che saranno definite dalle autorità competenti dei due Paesi.»

L’Italia, inoltre, si impegnava a cedere alla Libia, per un periodo di tre anni, tre navi senza bandiera (articolo 3 dell’accordo) e a promuovere presso gli organi dell’Unione europea (UE) la conclusione di un accordo-quadro tra l’UE e la Libia (articolo 4 dell’accordo).
Infine, secondo l’articolo 7 dell’accordo bilaterale, la Libia si impegnava a «coordinare i propri sforzi con quelli dei Paesi di origine per la riduzione dell’immigrazione clandestina e il rimpatrio degli immigrati».
Il 4 febbraio 2009 l’Italia e la Libia sottoscrissero a Tripoli un Protocollo addizionale volto a rafforzare la collaborazione bilaterale ai fini della lotta contro l’immigrazione clandestina. Quest’ultimo Protocollo modificava in parte l’accordo del 29 dicembre 2007, in particolare con l’introduzione di un nuovo articolo che recita:
[Traduzione (in francese. N.d.T.) della cancelleria]
«I due Paesi si impegnano ad organizzare delle pattuglie marittime con equipaggi comuni formati da personale italiano e personale libico, equivalenti per numero, esperienza e competenze. Le pattuglie operano nelle acque libiche e internazionali sotto la supervisione di personale libico e con la partecipazione di equipaggi italiani, e nelle acque italiane e internazionali sotto la supervisione di personale italiano e con la partecipazione di personale libico.
La proprietà delle navi offerte dall’Italia in applicazione dell’articolo 3 dell’accordo del 29 dicembre 2007 sarà ceduta definitivamente alla Libia.
I due Paesi si impegnano a rimpatriare gli immigrati clandestini e a concludere accordi con i Paesi di origine per limitare il fenomeno dell’immigrazione clandestina».

20. Il 30 agosto 2008 l’Italia e la Libia firmarono a Bengasi il Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione che, nel suo articolo 19, prevede degli sforzi per prevenire il fenomeno dell’immigrazione clandestina nei Paesi di origine dei flussi migratori. Ai sensi dell’articolo 6 di tale trattato, l’Italia e la Libia di impegnavano ad agire conformemente ai principi della Carta delle Nazioni Unite e della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo.

21. Secondo una dichiarazione del Ministro italiano della Difesa del 26 febbraio 2011, l’applicazione degli accordi tra Italia e Libia è stata sospesa a seguito dei fatti del 2011.

III. ELEMENTI PERTINENTI DI DIRITTO INTERNAZIONALE E DI DIRITTO EUROPEO

A. La Convenzione di Ginevra relativa allo status dei rifugiati (1951)

22. L’Italia è parte alla Convenzione di Ginevra del 1951 relativa allo status dei rifugiati («la Convenzione di Ginevra»), che definisce le modalità secondo le quali uno Stato deve accordare lo status di rifugiato alle persone che ne fanno richiesta, nonché i diritti e i doveri di tali persone. Gli articoli 1 e 33 § 1 di detta Convenzione recitano:

Articolo 1

«Ai fini della presente Convenzione, il termine «rifugiato» è applicabile a chiunque (...) nel giustificato timore d’essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche, si trova fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di detto Stato; oppure a chiunque, essendo apolide e trovandosi fuori del suo Stato di domicilio in seguito a tali avvenimenti, non può o, per il timore sopra indicato, non vuole ritornarvi.»

Articolo 33 § 1

«Nessuno Stato Contraente espellerà o respingerà, in qualsiasi modo, un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche».

23. Nella sua nota sulla protezione internazionale del 13 settembre 2001 (A/AC.96/951, § 16), l’HCR, che ha il compito di vigilare sul modo in cui gli Stati parte applicano la Convenzione di Ginevra, ha indicato che il principio enunciato all’articolo 33, detto di «non-respingimento», era:

«un principio fondamentale di protezione al quale non sono ammesse riserve. Sotto molti aspetti, questo principio è il complemento logico del diritto di chiedere asilo riconosciuto nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Tale diritto ha finito per essere considerato una norma di diritto internazionale consuetudinario vincolante per tutti gli Stati. Inoltre, il diritto internazionale dei diritti dell’uomo ha stabilito che il non-respingimento è una componente fondamentale del divieto assoluto di tortura e di trattamenti crudeli, inumani o degradanti. L’obbligo di non respingere è anche riconosciuto come applicabile ai rifugiati indipendentemente dal loro riconoscimento ufficiale, il che comprende evidentemente i richiedenti asilo il cui status non è stato ancora determinato. Esso copre qualsiasi misura imputabile ad uno Stato che possa produrre l’effetto di rinviare un richiedente asilo o un rifugiato verso le frontiere di un territorio in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate e in cui rischierebbe una persecuzione. Ciò include il rigetto alle frontiere, l’intercettazione e il respingimento indiretto, che si tratti di un individuo in cerca di asilo o di un afflusso massiccio.»

B. La Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare («Convenzione di Montego Bay») (1982)

24. Gli articoli pertinenti della Convenzione di Montego Bay recitano:

Articolo 92
Posizione giuridica delle navi

«1. Le navi battono la bandiera di un solo Stato e, salvo casi eccezionali specificamente previsti da trattati internazionali o dalla presente Convenzione, nell’alto mare sono sottoposte alla sua giurisdizione esclusiva (...).»

Articolo 94
Obblighi dello Stato di bandiera

«1. Ogni Stato esercita efficacemente la propria giurisdizione e il proprio controllo su questioni di carattere amministrativo, tecnico e sociale sulle navi che battono la sua bandiera.

(...)»

Articolo 98
Obbligo di prestare soccorso

«1. Ogni Stato deve esigere che il comandante di una nave che batte la sua bandiera, nella misura in cui gli sia possibile adempiere senza mettere a repentaglio la nave, l’equipaggio o i passeggeri: presti soccorso a chiunque sia trovato in mare in condizioni di pericolo;
 proceda quanto più velocemente è possibile al soccorso delle persone in pericolo, se viene a conoscenza del loro bisogno di aiuto, nella misura in cui ci si può ragionevolmente aspettare da lui tale iniziativa;

(...)»

C. La Convenzione internazionale sulla ricerca e il salvataggio marittimi («la Convenzione SAR») (1979, modificata nel 2004)

25. Il punto 3.1.9 della Convenzione SAR dispone:

«Le Parti devono assicurare il coordinamento e la cooperazione necessari affinché i capitani delle navi che prestano assistenza imbarcando persone in pericolo in mare siano dispensati dai loro obblighi e si discostino il meno possibile dalla rotta prevista, senza che il fatto di dispensarli da tali obblighi comprometta ulteriormente la salvaguardia della vita umana in mare. La Parte responsabile della zona di ricerca e salvataggio in cui viene prestata assistenza si assume in primo luogo la responsabilità di vigilare affinché siano assicurati il coordinamento e la cooperazione suddetti, affinché i sopravvissuti cui è stato prestato soccorso vengano sbarcati dalla nave che li ha raccolti e condotti in luogo sicuro, tenuto conto della situazione particolare e delle direttive elaborate dall’Organizzazione (Marittima Internazionale). In questi casi, le Parti interessate devono adottare le disposizioni necessarie affinché lo sbarco in questione abbia luogo nel più breve tempo ragionevolmente possibile.»

D. Il Protocollo addizionale alla Convenzione delle Nazioni Unite contro la Criminalità organizzata transnazionale per combattere il traffico illecito di migranti per via terrestre, aerea e marittima («Protocollo di Palermo») (2000)

26. L’articolo 19 § 1 del Protocollo di Palermo recita:

«Nessuna disposizione del presente Protocollo pregiudica gli altri diritti, obblighi e responsabilità degli Stati e degli individui derivanti dal diritto internazionale, compreso il diritto internazionale umanitario e il diritto internazionale relativo ai diritti dell’uomo e, in particolare, laddove applicabili, la Convenzione del 1951 e il Protocollo del 1967 relativi allo status dei Rifugiati e il principio di non respingimento ivi enunciato.»

E. La Risoluzione 1821 (2011) dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa

27. Il 21 giugno 2011, l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa ha adottato la Risoluzione sull’intercettazione e il salvataggio in mare di richiedenti asilo, rifugiati e migranti in situazione irregolare, che recita:

«1. La sorveglianza delle frontiere meridionali dell’Europa è divenuta una priorità regionale. Il continente europeo si trova a dover affrontare l’arrivo relativamente importante di flussi migratori via mare provenienti dall’Africa e che giungono in Europa soprattutto attraverso l’Italia, Malta, la Spagna, la Grecia e Cipro.

2. Migranti, rifugiati, richiedenti asilo e altre persone rischiano la vita per raggiungere le frontiere dell’Europa meridionale, generalmente in imbarcazioni di fortuna. Questi viaggi, sempre effettuati con mezzi irregolari e per lo più a bordo di navi senza bandiera, a rischio di cadere nelle mani di reti di traffico illecito di migranti e tratta di esseri umani, sono l’espressione della situazione difficile in cui si trovano le persone imbarcate, che non hanno mezzi regolari e in ogni caso meno rischiosi per raggiungere l’Europa.

3. Anche se il numero di arrivi via mare è drasticamente diminuito negli ultimi anni, con un conseguente spostamento delle rotte migratorie (in particolare verso la frontiera terrestre tra la Turchia e la Grecia), l’Assemblea parlamentare, richiamando in particolare la sua Risoluzione 1637 (2008) «I boat people in Europa: arrivo via mare di flussi migratori misti in Europa», esprime nuovamente le sue vive preoccupazioni rispetto alle misure adottate per gestire l’arrivo via mare di questi flussi migratori misti. Molte persone in pericolo in mare sono state salvate e molte persone che hanno tentato di raggiungere l’Europa sono state rinviate, ma la lista degli incidenti mortali – tanto tragici quanto prevedibili – è lunga ed aumenta attualmente quasi ogni giorno.

4. Peraltro, i recenti arrivi in Italia e a Malta avvenuti in seguito alle agitazioni in Africa del Nord confermano la necessità per l’Europa di essere pronta ad affrontare, in qualsiasi momento, l’arrivo massiccio di migranti irregolari, di richiedenti asilo e di rifugiati sulle sue coste meridionali.

5. L’Assemblea prende atto che la gestione di tali arrivi via mare solleva numerosi problemi, tra cui cinque sono particolarmente inquietanti:

5.1. Mentre vari strumenti internazionali pertinenti si applicano in materia ed espongono in maniera soddisfacente i diritti e gli obblighi degli Stati e degli individui, sembrano esservi delle divergenze nell’interpretazione del loro contenuto. Alcuni Stati non concordano sulla natura e la portata delle loro responsabilità in alcuni casi ed alcuni Stati rimettono anche in discussione l’applicazione del principio di non respingimento in alto mare;

5.2. Benché la priorità assoluta in caso di intercettazione in mare sia assicurare lo sbarco rapido delle persone cui è stato prestato soccorso in «luogo sicuro», la nozione di «luogo sicuro» non sembra essere interpretata allo stesso modo da tutti gli Stati membri. È evidente che la nozione di «luogo sicuro» non può essere limitata alla sola protezione fisica delle persone ma comprende necessariamente il rispetto dei loro diritti fondamentali;

5.3. Tali disaccordi mettono direttamente in pericolo la vita delle persone da soccorrere, in particolare ritardando o impedendo le azioni di salvataggio, e possono dissuadere i navigatori dal venire in soccorso delle persone in pericolo. Inoltre, potrebbero dare luogo alla violazione del principio di non-respingimento nei confronti di un numero importante di persone, comprese quelle che necessitano di tutela internazionale;

5.4. Mentre l’Agenzia europea per la gestione della cooperazione operativa alle frontiere esterne degli Stati membri dell’Unione europea (Frontex) svolge un ruolo sempre più importante in materia di intercettazioni in mare, le garanzie del rispetto dei diritti dell’uomo e degli obblighi derivanti dal diritto internazionale e dal diritto comunitario nel contesto delle operazioni congiunte che coordina sono insufficienti;

5.5. Infine, tali arrivi via mare fanno gravare un onere sproporzionato sugli Stati situati alle frontiere meridionali dell’Unione europea. Lo scopo di una ripartizione più equa delle responsabilità e di una maggiore solidarietà in materia di migrazione tra gli Stati europei è lungi dall’essere raggiunto.

6. La situazione è complicata dal fatto che i flussi migratori in questione sono di natura mista ed esigono dunque risposte specifiche che tengano conto dei bisogni di tutela e adattate allo status delle persone cui è stato prestato soccorso. Per fornire agli arrivi via mare una risposta adeguata e conforme alle norme internazionali pertinenti, gli Stati devono tenere conto di questo elemento nelle loro politiche e nelle attività di gestione delle migrazioni.

7. L’Assemblea ricorda agli Stati membri i loro obblighi derivanti dal diritto internazionale, in particolare ai sensi della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 1982 e della Convenzione di Ginevra del 1951 relativa allo status dei rifugiati, in particolare il principio di non-respingimento e il diritto di chiedere asilo. L’Assemblea ricorda anche gli obblighi degli Stati parte alla Convenzione internazionale per la salvaguardia della vita umana in mare del 1974 e alla Convenzione internazionale del 1979 sulla ricerca e il salvataggio marittimi.

8. Infine, e soprattutto, l’Assemblea ricorda agli Stati membri che hanno l’obbligo sia morale che giuridico di soccorrere le persone in pericolo in mare senza il minimo indugio e riafferma senza ambiguità l’interpretazione fatta dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (HCR) secondo cui il principio di non-respingimento si applica anche in alto mare. L’alto mare non è una zona in cui gli Stati sono esenti dai loro obblighi giuridici, ivi compresi gli obblighi derivanti dal diritto internazionale dei diritti dell’uomo e dal diritto internazionale dei rifugiati.

9. L’Assemblea chiama dunque gli Stati membri, nel compimento delle attività di vigilanza delle frontiere marittime, che sia nel contesto della prevenzione del traffico illecito e della tratta degli esseri umani o in quello della gestione delle frontiere, che esercitino la loro giurisdizione di diritto o di fatto:

9.1. a rispondere senza eccezioni e senza ritardo al loro obbligo di soccorrere le persone in pericolo in mare;

9.2. a vigilare affinché le loro politiche e attività relative alla gestione delle loro frontiere, ivi comprese le misure di intercettazione, riconoscano la composizione mista dei flussi di persone che tentano di varcare le frontiere marittime;

9.3. a garantire a tutte le persone intercettate un trattamento umano e il rispetto sistematico dei loro diritti umani, ivi compreso il principio di non-respingimento, indipendentemente dal fatto che le misure di intercettazione siano attuate nelle loro acque territoriali, in quelle di un altro Stato sulla base di un accordo bilaterale ad hoc, o in alto mare;

9.4. ad astenersi dal ricorrere a qualsiasi pratica che possa essere assimilata ad un respingimento diretto o indiretto, ivi compreso in alto mare, nel rispetto dell’interpretazione dell’applicazione extraterritoriale di questo principio fatta dall’HCR e delle sentenze pertinenti della Corte europea dei diritti dell’uomo;

9.5. ad assicurare in via prioritaria lo sbarco rapido delle persone cui è stato prestato soccorso in «luogo sicuro» e a considerare come «luogo sicuro» un luogo che possa rispondere alle necessità immediate delle persone sbarcate, che non metta in alcun modo a rischio i loro diritti fondamentali; tenendo presente che la nozione di «sicurezza» va oltre la semplice protezione dal pericolo fisico e tenendo conto altresì della prospettiva dei diritti fondamentali del luogo di sbarco proposto;

9.6. a garantire alle persone intercettate che hanno bisogno di una tutela internazionale l’accesso a una procedura di asilo giusta ed efficace;

9.7. a garantire alle persone intercettate vittime della tratta di esseri umani o che rischiano di diventarlo l’accesso a una tutela e ad un’assistenza, ivi comprese le procedure di asilo;

9.8. a vigilare affinché il trattenimento di persone intercettate – escludendo sistematicamente i minori e i gruppi vulnerabili – indipendentemente dal loro status, sia autorizzato dalle autorità giudiziarie e abbia luogo solo in caso di necessità e per motivi previsti dalla legge, in assenza di alternative appropriate e nel rispetto delle norme minime e dei principi definiti nella Risoluzione 1707 (2010) dell’Assemblea sul trattenimento amministrativo dei richiedenti asilo e dei migranti in situazione irregolare in Europa;

9.9. a sospendere gli accordi bilaterali che possono aver concluso con Stati terzi se i diritti fondamentali di persone intercettate non sono garantiti adeguatamente in tali strumenti, in particolare il diritto di accesso a una procedura di asilo, e se gli stessi possono essere assimilati a una violazione del principio di non-respingimento, e a concludere nuovi accordi bilaterali contenenti espressamente tali garanzie in materia di diritti dell’uomo e misure finalizzate al loro controllo regolare ed effettivo;

9.10. a firmare e ratificare, se non l’hanno ancora fatto, gli strumenti internazionali pertinenti sopra menzionati e a tenere conto delle Direttive dell’Organizzazione marittima internazionale (OMI) sul trattamento delle persone cui è stato prestato soccorso in mare;

9.11. a firmare e ratificare, se non l’hanno già fatto, la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla lotta contro la tratta degli esseri umani (STCE n. 197) e i Protocolli detti «di Palermo» alla Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità transnazionale organizzata (2000);

9.12. a vigilare affinché le operazioni di sorveglianza alle frontiere marittime e le misure di controllo alle frontiere non ostacolino la tutela specifica accordata a titolo del diritto internazionale alle categorie vulnerabili come i rifugiati, gli apolidi, i bambini non accompagnati e le donne, i migranti, le vittime della tratta o le persone che rischiano di diventarlo, nonché le vittime di torture e di traumi.

10. L’Assemblea è preoccupata per la mancanza di chiarezza per quanto riguarda le responsabilità rispettive degli Stati membri dell’Unione europea e di Frontex e per la mancanza di garanzie adeguate di rispetto dei diritti fondamentali e delle norme internazionali nell’ambito delle operazioni congiunte coordinate da tale agenzia. Pur rallegrandosi per le proposte presentate dalla Commissione europea per modificare il regolamento di tale agenzia al fine di rafforzare le garanzie del rispetto dei diritti fondamentali, l’Assemblea le ritiene insufficienti ed auspicherebbe che il Parlamento europeo venisse incaricato del controllo democratico delle attività di tale agenzia, con particolare riguardo al rispetto dei diritti fondamentali.

11. L’Assemblea considera anche che è fondamentale che vengano fatti degli sforzi per porre rimedio alle cause principali che spingono delle persone disperate a imbarcarsi verso l’Europa mettendo a rischio la loro vita. L’Assemblea invita tutti gli Stati membri a potenziare i loro sforzi per favorire la pace, lo Stato di diritto e la prosperità nei Paesi di origine dei candidati all’immigrazione e dei richiedenti asilo.

12. Infine, tenuto conto dei rischi seri che rappresenta per gli Stati costieri l’arrivo irregolare via mare di flussi misti di persone, l’Assemblea fa appello alla comunità internazionale, in particolare all’OMI, all’HRC, all’Organizzazione internazionale per le migrazioni (OIM), al Consiglio d’Europa e all’Unione europea (ivi compreso Frontex e l’Ufficio europeo di sostegno in materia di asilo) affinché:

12.1. forniscano tutta l’assistenza richiesta a tali Stati in uno spirito di solidarietà e di ripartizione delle responsabilità;

12.2. sotto l’egida dell’OMI, a spiegare degli sforzi concertati al fine di garantire un approccio coerente ed armonizzato del diritto marittimo internazionale, in particolare attraverso un consenso sulla definizione e il contenuto dei principali termini e norme;

12.3. a predisporre un gruppo inter-agenzie incaricato di studiare e risolvere i principali problemi in materia di intercettazione in mare, ivi compresi i cinque problemi individuati nella presente risoluzione, di fissare delle priorità politiche precise, di fornire consulenza agli Stati e ad altri attori interessati e di controllare e valutare l’applicazione delle misure di intercettazione in mare. Il gruppo dovrebbe essere composto di membri dell’OMI, dell’HCR, dell’OIM, del Consiglio d’Europa, di Frontex e dell’Ufficio europeo di sostegno per l’asilo.»

F. Il diritto dell’Unione europea

1. La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (2000)

28. L’articolo 19 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea recita:

Protezione in caso di allontanamento, di espulsione e di estradizione

«1. Le espulsioni collettive sono vietate.

2. Nessuno può essere allontanato, espulso o estradato verso uno Stato in cui esiste un rischio serio di essere sottoposto alla pena di morte, alla tortura o ad altre pene o trattamenti inumani o degradanti.»

2. L’accordo di Schengen (1985)

29. L’articolo 17 dell’Accordo di Schengen recita:

«In materia di circolazione delle persone, le Parti si adopereranno per eliminare i controlli alle frontiere comuni, trasferendoli alle proprie frontiere esterne. A tal fine, si adopereranno in via preliminare per armonizzare, se necessario, le disposizioni legislative e regolamentari relative ai divieti ed alle restrizioni sulle quali si basano i controlli e per adottare misure complementari per la salvaguardia della sicurezza e per impedire l’immigrazione clandestina di cittadini di Stati non membri delle Comunità europee.»

3. Il Regolamento (CE) n. 2007/2004 del Consiglio del 26 ottobre 2004 che istituisce un’Agenzia europea per la gestione della cooperazione operativa alle frontiere esterne degli Stati membri dell’Unione europea (FRONTEX)

30. Il Regolamento (CE) n. 2007/2004 contiene le disposizioni seguenti:La politica comunitaria nel settore delle frontiere esterne dell’Unione europea mira a una gestione integrata atta a garantire un livello elevato e uniforme del controllo e della sorveglianza, necessario corollario alla libera circolazione delle persone nell’ambito dell’Unione europea nonché componente essenziale di uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia. A tal fine è prevista l’istituzione di norme comuni in materia di criteri e procedure relativi al controllo delle frontiere esterne.
 L’efficace attuazione delle norme comuni rende necessario un maggiore coordinamento della cooperazione operativa tra gli Stati membri.
 Tenendo conto delle esperienze maturate dall’organo comune di esperti in materia di frontiere esterne, nell’ambito del Consiglio, dovrebbe essere istituito un organismo specializzato incaricato di migliorare il coordinamento della cooperazione operativa tra gli Stati membri nel settore della gestione delle frontiere esterne in veste di Agenzia europea per la gestione della cooperazione operativa alle frontiere esterne degli Stati membri dell’Unione europea, di seguito denominata «l’Agenzia».
 Il controllo e la sorveglianza delle frontiere esterne ricadono sotto la responsabilità degli Stati membri. L’Agenzia dovrebbe semplificare l’applicazione delle misure comunitarie presenti e future in materia di gestione delle frontiere esterne, garantendo il coordinamento delle azioni intraprese dagli Stati membri nell’attuare tali misure.
 L’efficacia del controllo e della sorveglianza delle frontiere esterne è una questione della massima importanza per gli Stati membri, qualunque sia la loro posizione geografica. Sussiste quindi l’esigenza di promuovere la solidarietà tra gli Stati membri nel settore della gestione delle frontiere esterne. L’istituzione dell’Agenzia, che assiste gli Stati membri nell’attuazione degli aspetti operativi riguardanti la gestione delle frontiere esterne, compreso il rimpatrio dei cittadini di paesi terzi presenti illegalmente negli Stati membri, rappresenta un significativo progresso in questa direzione.»

4. Il Regolamento (CE) n. 562/2006 del Parlamento europeo e del Consiglio del 15 marzo 2006 che istituisce un codice comunitario relativo al regime di attraversamento delle frontiere da parte delle persone (codice frontiere Schengen)

31. L’articolo 3 del Regolamento (CE) n. 562/2006 recita:

«Il presente regolamento si applica a chiunque attraversi le frontiere interne o esterne di uno Stato membro, senza pregiudizio:dei diritti dei beneficiari del diritto comunitario alla libera circolazione;
 dei diritti dei rifugiati e di coloro che richiedono protezione internazionale, in particolare per quanto concerne il non-respingimento

5. La Decisione del Consiglio del 26 aprile 2010 che integra il codice frontiere Schengen per quanto riguarda la sorveglianza delle frontiere marittime esterne nel contesto della cooperazione operativa coordinata dall’Agenzia europea per la gestione della cooperazione operativa alle frontiere esterne degli Stati membri dell’Unione europea (2010/252/UE)

32. La Decisione del Consiglio del 26 aprile 2010, nel suo allegato, precisa:

«Regole per le operazioni alle frontiere marittime coordinate dall’Agenzia [FRONTEX]:

1. Principi generali

1.1. Le misure adottate ai fini delle operazioni di sorveglianza sono attuate nel rispetto dei diritti fondamentali e in modo da salvaguardare l’incolumità delle persone intercettate o soccorse e delle unità partecipanti.

1.2. Nessuno può essere sbarcato o altrimenti consegnato alle autorità di un Paese in violazione del principio di non-respingimento o nel quale sussista un rischio di espulsione o di rimpatrio verso un altro paese in violazione di detto principio. Fatto salvo il punto 1.1, alle persone intercettate o soccorse sono fornite informazioni adeguate affinché possano esprimere qualunque motivo induca loro a ritenere che lo sbarco nel luogo proposto violerebbe il principio di non-respingimento.

1.3. Nel corso di tutta l’operazione si tiene conto delle particolari esigenze dei minori, delle vittime della tratta di esseri umani, di quanti necessitano di assistenza medica urgente o di protezione internazionale e di quanti si trovano in situazione di grande vulnerabilità.

1.4. Gli Stati membri provvedono affinché le guardie di frontiera che partecipano alle operazioni di sorveglianza ricevano una formazione sulle disposizioni pertinenti della normativa in materia di diritti dell’uomo e di diritto dei rifugiati, e abbiano dimestichezza con il regime internazionale di ricerca e soccorso.»

IV.DOCUMENTI INTERNAZIONALI RIGUARDANTI LE INTERCETTAZIONI IN ALTO MARE EFFETTUATE DALL’ITALIA E LA SITUAZIONE IN LIBIA

A. Il comunicato stampa dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati

33.Il 7 maggio 2009, l’HCR pubblicò un comunicato stampa così redatto:

«L’HCR ha espresso viva preoccupazione giovedì per la sorte di circa 230 persone soccorse in mare mercoledì da motovedette italiane in servizio di pattugliamento marittimo nella zona di ricerca e salvataggio di competenza delle autorità maltesi. Tutte quelle persone sono state rinviate in Libia senza un’adeguata valutazione delle loro eventuali esigenze di tutela. Il salvataggio è stato compiuto a circa 35 miglia nautiche a sudest dell’isola di Lampedusa, tuttavia all’interno della zona di ricerca e salvataggio di competenza delle autorità maltesi.

Il rinvio in Libia è avvenuto al termine di una giornata di discussioni accese tra le autorità maltesi e quelle italiane sull’attribuzione della responsabilità del salvataggio e dello sbarco delle persone in pericolo che si trovavano a bordo delle tre imbarcazioni. Sebbene più vicine a Lampedusa, le navi incrociavano nella zona di ricerca e salvataggio di competenza delle autorità maltesi.

Anche se non abbiamo informazioni sulla nazionalità delle persone a bordo delle motovedette, è probabile che tra loro ve ne fossero di bisognose di tutela internazionale. Nel 2008, circa il 75% delle persone giunte in Italia via mare ha presentato richiesta di asilo e il 50% di loro ha ottenuto lo status di rifugiato o una tutela per altri motivi umanitari.

«Esorto le autorità italiane e maltesi a continuare a garantire alle persone soccorse in mare e bisognose di tutela internazionale libero accesso al territorio e alle procedure di asilo», ha dichiarato l’Alto Commissario António Guterres.

L’incidente segna un significativo cambio di rotta nelle politiche applicate fino ad allora dal governo italiano ed è motivo di grandissima preoccupazione. L’HCR condanna vivamente la mancanza di trasparenza che ha caratterizzato l’episodio.

«Lavoriamo a stretto contatto con le autorità italiane a Lampedusa e altrove per garantire che le persone che fuggono guerra e persecuzioni siano tutelate nel rispetto della Convenzione del 1951 relativa allo status dei rifugiati, adottata a Ginevra», ha aggiunto Laurens Jolles, delegato dell’HCR a Roma. «E’ di fondamentale importanza che il principio del diritto internazionale sul non respingimento continui ad essere pienamente rispettato».

Inoltre, la Libia non è firmataria della Convenzione delle Nazioni Unite del 1951 relativa allo status dei rifugiati e non dispone di un sistema nazionale di asilo operativo. L’HCR lancia un pressante appello alle autorità italiane affinché riconsiderino la loro decisione e facciano in modo di non attuare quelle misure in futuro.»

B. La lettera del sig. Jacques Barrot, vicepresidente della Commissione europea, datata 15 luglio 2009

34.Il 15 luglio 2009, il sig. Jacques Barrot ha indirizzato una lettera al presidente della Commissione delle libertà civili, della giustizia e degli affari interni del Parlamento europeo, in risposta ad una domanda di parere giuridico sul «riaccompagnamento in Libia via mare di vari gruppi di migranti da parte delle autorità italiane ». In quella lettera, il vicepresidente della Commissione europea si esprimeva così:

«Stando alle informazioni a disposizione della Commissione, i migranti in questione sono stati intercettati in alto mare.

Due complessi di norme comunitarie devono essere presi in esame riguardo alla situazione di cittadini di paesi terzi o apolidi che intendano entrare, illegalmente, nel territorio degli Stati membri e di cui alcuni potrebbero avere bisogno di tutela internazionale.

In primo luogo, l’acquis comunitario in materia di asilo mira a salvaguardare il diritto di asilo, quale enunciato nell’articolo 18 della Carta dei Diritti fondamentali dell’UE, in conformità alla Convenzione di Ginevra del 1951 relativa allo status dei rifugiati e agli altri trattati pertinenti. Tuttavia, tale acquis, compresa la direttiva sulle procedure di asilo del 2005, si applica unicamente alle domande di asilo fatte nel territorio degli Stati membri. Questo comprende le frontiere, le zone di transito nonché, nell’ambito delle frontiere marittime, le acque territoriali degli Stati membri. Pertanto, è chiaro giuridicamente che l’acquis comunitario in materia di asilo non si applica nelle situazioni in alto mare.

In secondo luogo, il Codice delle Frontiere Schengen (CFS) esige che gli Stati membri assicurino la sorveglianza delle frontiere per impedire tra l’altro l’attraversamento non autorizzato delle stesse (articolo 12 delregolamento (СЕ) n. 562/2006 (CFS)). Tuttavia, questo obbligo comunitario deve essere adempiuto in conformità al principio di non respingimento e fatti salvi i diritti dei rifugiati e dei richiedenti tutela internazionale.

Ad avviso della Commissione, le attività di sorveglianza delle frontiere svolte in mare, siano esse nelle acque territoriali, nella zona contigua, nella zona economica esclusiva o in alto mare, rientrano nel campo di applicazione del CFS. Al riguardo, la nostra analisi giuridica preliminare consente di supporre che le azioni dei guardacoste italiani corrispondano al concetto di «sorveglianza delle frontiere», come enunciato all’articolo 12 del CFS; esse hanno, infatti, impedito l’attraversamento non autorizzato della frontiera esterna marittima da parte degli interessati ed hanno portato al riaccompagnamento di questi nel paese terzo di partenza. Stando alla giurisprudenza della Corte di Giustizia europea, gli obblighi comunitari debbono essere applicati nello stretto rispetto dei diritti fondamentali che fanno parte dei principi generali del diritto comunitario. La Corte ha inoltre chiarito che il campo di applicazione di tali diritti nell’ordinamento giuridico comunitario deve essere stabilito prendendo in considerazione la giurisprudenza della Corte europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU)


Il principio di non respingimento, come interpretato dalla CEDU, significa essenzialmente che gli Stati devono astenersi dal rinviare una persona (direttamente o indirettamente) là dove essa potrebbe correre il rischio reale di essere sottoposta a tortura o a pene o a trattamenti inumani o degradanti. Inoltre, gli Stati non possono rinviare i rifugiati alle frontiere dei territori in cui la vita o la libertà di quelle persone sarebbe minacciata per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un particolare gruppo sociale od opinione politica. Questo obbligo dovrebbe essere rispettato in occasione dell’esecuzione del controllo alle frontiere conformemente al CFS, comprese le attività di sorveglianza delle frontiere in alto mare. Secondo la giurisprudenza della CEDU, le azioni eseguite in alto mare da una nave di Stato costituiscono un caso di competenza extraterritoriale e possono chiamare in causa la responsabilità dello Stato interessato.

Tenuto conto di quanto precede riguardo al campo delle competenze comunitarie, la Commissione ha invitato le autorità italiane a fornirle informazioni supplementari in merito alle circostanze di fatto del riaccompagnamento degli interessati in Libia e alle disposizioni in essere per garantire la conformità con il principio di non respingimento nell’attuazione dell’accordo bilaterale tra i due paesi.»

C. Il rapporto del Comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa

35.Dal 27 al 31 luglio 2009, una delegazione del Comitato per la prevenzione della tortura e delle pene o dei trattamenti inumani o degradanti (CPT) del Consiglio d’Europa ha effettuato una visita in Italia. In quell’occasione, la delegazione ha esaminato diverse questioni riguardanti la nuova politica governativa di intercettazione in mare e di rinvio in Libia di migranti irregolari in avvicinamento alle coste meridionali dell’Italia. La delegazione si è concentrata in particolare sull’esistente sistema di garanzie volto a evitare di rinviare una persona verso un paese quando esistano seri motivi di ritenere che quella persona correrà in quel paese il rischio reale di essere sottoposta a tortura e maltrattamenti.

36.Stando al rapporto del CPT, reso pubblico il 28 aprile 2010, la politica dell’Italia consistente nell’intercettare i migranti in mare e nel costringerli a ritornare in Libia o in altri paesi non europei costituiva una violazione del principio di non respingimento. Secondo il CPT, l’Italia era vincolata dal principio di non respingimento indipendentemente dal luogo di esercizio della sua giurisdizione, incluso l’esercizio della giurisdizione tramite il suo personale e le sue navi impegnati nella protezione delle frontiere o nel salvataggio in mare, persino in operazioni fuori del suo territorio. Inoltre, tutte le persone rientranti nella giurisdizione dell’Italia avrebbero dovuto avere la possibilità di chiedere tutela internazionale e di usufruire a tal fine delle necessarie agevolazioni. Secondo le informazioni in possesso del CPT, questa possibilità non era stata offerta ai migranti intercettati in mare dalle autorità italiane nel periodo in esame. Al contrario, le persone rinviate in Libia nell’ambito delle operazioni condotte da maggio a luglio 2009 si erano viste negare il diritto ad una valutazione individuale del loro caso e all’accesso effettivo al sistema di tutela dei rifugiati. Al riguardo, a dire del CPT, i sopravvissuti ad un viaggio in mare sono particolarmente vulnerabili e spesso in uno stato tale da impedire loro di poter esprimere immediatamente il desiderio di chiedere asilo.
Stando al rapporto del CPT, la Libia non può essere considerata un paese sicuro in materia di diritti dell’uomo e di diritto dei rifugiati; la situazione delle persone arrestate e detenute in Libia, compresa quella dei migranti – che corrono anche il rischio di essere espulsi – starebbe a dimostrare che le persone rinviate in Libia rischiavano di essere vittime di maltrattamenti.

D.Il rapporto di Human Rights Watch

37.In un lungo rapporto pubblicato il 21 settembre 2009, intitolato «Respinti, malmenati: l’Italia rinvia con la forza i migranti e i richiedenti asilo arrivati dal mare, la Libia li maltratta», Human Rights Watch denuncia la pratica italiana consistente nell’intercettare in alto mare imbarcazioni cariche di migranti e nel respingerli verso la Libia senza procedere alle necessarie verifiche. Il rapporto si basa anche sui risultati di ricerche pubblicate in un rapporto del 2006, intitolato «Libya, stemming the Flow. Abuses against migrants, asylum seekers and refugees».

38.Secondo Human Rights Watch, le motovedette italiane rimorchiano le imbarcazioni dei migranti nelle acque internazionali senza verificare se tra questi vi siano rifugiati, malati o feriti, donne in stato di gravidanza, bambini non accompagnati o vittime di tratta o di altre forme di violenza. Le autorità italiane costringerebbero i migranti intercettati a salire a bordo di navi libiche o li riaccompagnerebbero direttamente in Libia, dove essi sarebbero immediatamente arrestati dalle autorità locali. Alcune di queste operazioni sarebbero coordinate dall’agenzia Frontex.
Il rapporto si basa su colloqui avuti con novantuno migranti, richiedenti asilo e rifugiati in Italia e a Malta, per lo più nel maggio 2009, e su un colloquio telefonico con un migrante detenuto in Libia. Alcuni rappresentanti di Human Rights Watch si sarebbero recati in Libia nell’aprile 2009 e avrebbero incontrato rappresentanti del governo, ma le autorità libiche non avrebbero consentito all’organizzazione di avere colloqui in privato con i migranti. Le autorità non avrebbero nemmeno concesso a Human Rights Watch l’autorizzazione a visitare uno dei numerosi centri di detenzione per i migranti in Libia, nonostante le ripetute richieste dell’organizzazione umanitaria. L’HCR avrebbe adesso accesso alla prigione di Misurata, dove generalmente sarebbero detenuti i migranti clandestini, e alcune organizzazioni libiche vi fornirebbero servizi umanitari. Tuttavia, in assenza di un accordo ufficiale, l’accesso non sarebbe garantito. Inoltre, la Libia non conoscerebbe il diritto di asilo. Le autorità non farebbero alcuna distinzione tra i rifugiati, i richiedenti asilo ed altri migranti clandestini.

39.Human Rights Watch esorta il governo libico a migliorare le condizioni detentive in Libia, a quanto pare deplorevoli, e a prevedere procedure di asilo conformi alle norme internazionali. Il rapporto si rivolge anche al governo italiano, all’Unione europea e a Frontex, chiedendo il rispetto del diritto di asilo, anche nei confronti delle persone intercettate in alto mare, e il non rinvio in Libia dei non cittadini libici, fino a quando quel paese non abbia conformato alle norme internazionali le modalità di trattamento dei migranti, dei richiedenti asilo e dei rifugiati.

E. La visita di Amnesty International

40.Un’équipe di Amnesty International ha svolto una missione d’inchiesta in Libia dal 15 al 23 maggio 2009. Era la prima volta dal 2004 che le autorità libiche autorizzavano una visita dell’organizzazione.
Durante la visita, Amnesty International si è recata in particolare a circa 200 km da Tripoli, dove ha interrogato brevemente alcuni delle centinaia di migranti clandestini provenienti da altri paesi dell’Africa che affollano il centro detentivo di Misurata. Molti di quei migranti sarebbero stati intercettati mentre cercavano di recarsi in Italia o in un altro paese del sud dell’Europa che ha chiesto alla Libia e ad altri paesi del Nord Africa di trattenere i migranti illegali provenienti dall’Africa sub sahariana per impedire loro di recarsi in Europa.

41.Secondo Amnesty International, tra le persone detenute a Misurata possono esservi dei rifugiati che fuggono la persecuzione, inoltre la Libia non dispone di una procedura di asilo e non è parte alla Convenzione relativa allo status dei rifugiati né al Protocollo di questa datato 1967; gli stranieri, compresi quelli bisognosi di tutela internazionale, rischierebbero di non beneficiare della tutela legale. I detenuti non avrebbero praticamente alcuna possibilità di denunciare eventuali violazioni dinanzi ad un’autorità giudiziaria competente per atti di tortura od altre forme di maltrattamenti.
Amnesty International avrebbe comunicato ai responsabili governativi incontrati in Libia di essere preoccupata per la detenzione e i maltrattamenti inflitti alle centinaia, se non migliaia, di stranieri che le autorità assimilerebbero a migranti irregolari e avrebbe chiesto loro di prevedere una procedura che consenta di identificare e tutelare adeguatamente i richiedenti asilo e i rifugiati. Avrebbe inoltre chiesto alle autorità libiche di non rinviare più con la forza cittadini stranieri verso paesi dove essi rischiano di subire gravi violazioni dei diritti dell’uomo e di trovare una soluzione migliore della detenzione per gli stranieri che non possono essere rinviati nei paesi di origine per tale motivo. Alcuni cittadini eritrei, che costituirebbero una parte importante dei cittadini stranieri detenuti a Misurata, avrebbero comunicato alla delegazione di Amnesty International di essere detenuti da due anni.

V.ALTRI DOCUMENTI INTERNAZIONALI RIGUARDANTI LA SITUAZIONE IN LIBIA

42.Oltre a quelli succitati, sono numerosi i rapporti pubblicati da organizzazioni internazionali ed internazionali nonché da organizzazioni non governative che condannano le condizioni detentive e di vita dei migranti irregolari in Libia all’epoca dei fatti.

Ecco un elenco dei principali rapporti:Human Rights Watch, Stemming the Flow: abuses against migrants, asylum seekers and refugees, settembre 2006;Comitato dei diritti dell’uomo delle Nazioni Unite, Osservazioni finali Jamahiriya arabo-libica, 15 novembre 2007;Amnesty Intemational, Libia – Rapporto 2008 di Amnesty International, 28 maggio 2008;Human Rights Watch, Libya Rights at Risk, 2 settembre 2008;Dipartimento di Stato americano, Rapporto relativo ai diritti dell’uomo in Libia, 4 aprile 2010.

VI.DOCUMENTI INTERNAZIONALI RIGUARDANTI LA SITUAZIONE IN SOMALIA E IN ERITREA

43.I principali documenti internazionali riguardanti la situazione in Somalia sono presentati nella causa Sufi e Elmi c. Regno Unito (nn.8319/07 e 11449/07, §§ 80-195, 28 giugno 2011).

44.Per quanto riguarda l’Eritrea, diversi rapporti denunciano violazioni dei diritti fondamentali perpetrate in quel paese. Essi danno conto di gravi violazioni dei diritti dell’uomo da parte del governo eritreo, quali gli arresti arbitrari, la tortura, le condizioni detentive disumane, il lavoro forzato e le gravi restrizioni alla libertà di movimento, di espressione e di culto. Quei documenti prendono in esame anche la difficile situazione degli Eritrei che riescono a fuggire verso altri paesi quali la Libia, il Sudan, l’Egitto e l’Italia, e sono poi rimpatriati con la forza.

Ecco l’elenco dei principali rapporti:HCR, Eligibility guidelines for assessing the international protection needs of asylum-seekers from Eritrea, aprile 2009;Amnesty international, report 2009, Eritrea, 28 maggio 2009;;Human Rights Watch, Service for life, state repression and indefinite conscription in Eritrea, aprile 2009;Human Rights Watch, Libya, don’t send Eritreans back to risk of torture, 15 gennaio 2010;Human Rights Watch, World Chapter Report, gennaio 2010.

IN DIRITTO

I. QUESTIONI PRELIMINARI SOLLEVATE DAL GOVERNO

A. Sulla validità delle procure e sulla prosecuzione dell’esame del ricorso

1.La questione sollevata dal Governo

45.Il Governo contesta sotto vari aspetti la validità delle procure fornite dai rappresentanti dei ricorrenti. Innanzitutto, denuncia irregolarità nella redazione della maggior parte delle procure, ossia:l’assenza di indicazione di data e luogo e, in alcuni casi, la circostanza che data e luogo sembrerebbero essere stati scritti dalla stessa persona;l’assenza di riferimento al numero del ricorso;il fatto che le generalità dei ricorrenti consisterebbero solo nel cognome, nome, nazionalità, in una firma illeggibile e in un’impronta digitale spesso parziale e indecifrabile;l’assenza di indicazione delle date di nascita dei ricorrenti.

46.Il Governo osserva poi che il ricorso non precisa né le circostanze della redazione delle procure, insinuando così dubbi sulla validità di queste, né i passi compiuti dai rappresentanti dei ricorrenti al fine di accertare le generalità dei loro clienti. Inoltre, il Governo mette in discussione la qualità dei contatti esistenti tra i ricorrenti e i loro rappresentanti. In particolare, afferma che i messaggi elettronici inviati dai ricorrenti dopo il loro trasferimento in Libia non sono accompagnati da firme confrontabili con quelle apposte sulle procure. Secondo il Governo, le difficoltà incontrate dagli avvocati nello stabilire e mantenere i contatti con i ricorrenti impedirebbero l’esame in contraddittorio della causa.

47.Pertanto, stante l’impossibilità di verificare le generalità dei ricorrenti, e in assenza di una «partecipazione personale» di questi alla causa, la Corte dovrebbe rinunciare a proseguire l’esame del ricorso. Facendo riferimento alla causa Hussun ed altri c. Italia ((cancellazione), nn.10171/05, 10601/05, 11593/05 e 17165/05, 19 gennaio 2010), il Governo chiede alla Corte di cancellare il ricorso dal ruolo.

2.Le argomentazioni dei ricorrenti

48.I rappresentanti dei ricorrenti difendono la validità delle procure. Affermano innanzitutto che le irregolarità nella redazione dedotte dal Governo non possono comportare la nullità dei mandati conferiti loro dai clienti.

49.Quanto alle circostanze della redazione delle procure, essi precisano che i mandati sono stati formalizzati dai ricorrenti sin dall’arrivo di questi in Libia, presso membri di organizzazioni umanitarie operanti in diversi centri di trattenimento. Queste persone si sarebbero poi incaricate di contattarli e di trasmettere loro le procure perché potessero firmarle e accettare i mandati.

50.Quanto alle difficoltà legate all’identificazione degli interessati, esse sarebbero una conseguenza diretta dell’oggetto del ricorso, cioè un’operazione di rinvio collettivo e senza previa identificazione dei migranti clandestini. Comunque sia, gli avvocati attirano l’attenzione della Corte sul fatto che una parte importante dei ricorrenti è stata identificata dall’ufficio dell’HCR a Tripoli all’arrivo in Libia.

51.Infine, gli avvocati affermano di avere tenuto i contatti con una parte degli interessati, raggiungibili per telefono e posta elettronica. Al riguardo, essi rappresentano grandi difficoltà nel tenere i contatti con i ricorrenti, in particolare a causa dei disordini che hanno scosso la Libia a partire dal febbraio 2011.

3.Valutazione della Corte

52.La Corte ricorda innanzitutto che, ai sensi dell’articolo 45 § 3 del suo regolamento, il rappresentante di un ricorrente deve produrre «una procura scritta». Di conseguenza, una semplice procura scritta sarebbe valida ai fini del procedimento dinanzi alla Corte, dal momento che nessuno potrebbe dimostrare che essa è stata redatta senza il consenso dell’interessato o senza che questi comprenda di cosa si tratta (Velikova c. Bulgaria, n. 41488/98, § 50, CEDU2000-VI).

53.Del resto, né la Convenzione né il regolamento della Corte pongono condizioni particolari quanto alla redazione della procura, né richiedono alcuna forma di certificazione da parte delle autorità nazionali. Importante, per la Corte, è che la procura indichi chiaramente che il ricorrente ha affidato la sua rappresentanza dinanzi alla Corte ad un legale e che questi ha accettato il mandato (Riabov c. Russia, n. 3896/04, §§ 40 e 43, 31 gennaio 2008).

54.Nel caso di specie, la Corte osserva che tutte le procure acquisite agli atti sono firmate ed accompagnate da impronte digitali. Inoltre, i rappresentanti dei ricorrenti hanno fornito, durante tutto il procedimento, informazioni dettagliate in merito allo svolgimento dei fatti e alla sorte dei ricorrenti, con cui hanno potuto mantenere i contatti. Niente nel fascicolo induce a dubitare del racconto degli avvocati, né a mettere in discussione lo scambio d’informazioni con la Corte (si veda, a contrario, Hussun, sopra citata, §§ 43-50).

55.Pertanto, la Corte non ha motivi di dubitare della validità delle procure. Essa rigetta quindi l’eccezione del Governo.

56.D’altra parte, la Corte osserva che, stando alle informazioni fornite dagli avvocati, due dei ricorrenti, il sig. Mohamed Abukar Mohamed e il sig. Hasan Shariff Abbirahman (rispettivamente il n. 10 e il n. 11 dell’elenco), sono deceduti pochissimo tempo dopo la presentazione del ricorso (paragrafo 15 supra).

57. Essa rammenta che, secondo la prassi della Corte, sono cancellati dal ruolo i ricorsi di ricorrenti deceduti durante il procedimento quando nessun erede o parente prossimo intenda continuare il ricorso (si vedano, tra le altre, Scherer c.Svizzera, 25 marzo 1994, §§ 31-32, serie A n. 287; Öhlinger c. Austria, n.21444/93, rapporto della Commissione del 14 gennaio 1997, § 15, non pubblicato; Thévenon c. Francia (dec.), n. 2476/02, CEDU 2006-III; e Léger c.Francia (cancellazione) [GC], n. 19324/02, § 44, 30 marzo 2009).

58. Alla luce delle circostanze del caso, la Corte ritiene ormai ingiustificata la prosecuzione dell’esame del ricorso per quanto riguarda le persone decedute (articolo 37 § 1 c) della Convenzione). Del resto, essa osserva che i motivi di ricorso inizialmente sollevati dai sigg. Mohamed Abukar Mohamed e Hasan Shariff Abbirahman sono gli stessi di quelli enunciati dagli altri ricorrenti, in merito ai quali esprimerà il suo parere di seguito. Pertanto, a suo giudizio, nessuna ragione dipendente dal rispetto dei diritti dell’uomo sanciti dalla Convenzione e dai suoi Protocolli esigerebbe, conformemente all’articolo 37 § 1 in fine, la prosecuzione dell’esame del ricorso dei ricorrenti deceduti.

59. In conclusione, la Corte decide di cancellare il ricorso dal ruolo nella parte relativa ai ricorrenti Mohamed Abukar Mohamed e HasanShariff Abbirahman, e di proseguire l’esame del ricorso per il resto.

B. Sull’esaurimento delle vie di ricorso interne

60. Nell’udienza dinanzi alla Grande Camera, il Governo ha invocato l’irricevibilità del ricorso per mancato esaurimento delle vie di ricorso interne. Ha sostenuto che i ricorrenti avevano omesso di adire i giudici italiani al fine di ottenere il riconoscimento e la riparazione delle dedotte violazioni della Convenzione.

61. Secondo il Governo, i ricorrenti, attualmente liberi di spostarsi e in grado, come hanno dimostrato, di raggiungere i loro avvocati nell’ambito del procedimento dinanzi alla Corte, avrebbero dovuto presentare ricorsi dinanzi ai giudici penali italiani al fine di lamentare eventuali violazioni del diritto interno e del diritto internazionale da parte dei militari coinvolti nel loro allontanamento. Procedimenti penali sarebbero attualmente in corso in cause simili, e questo tipo di ricorso avrebbe carattere «effettivo».

62. La Corte rileva che i ricorrenti lamentano anche di non avere avuto a disposizione un ricorso rispondente alle esigenze dell’articolo 13 della Convenzione. A suo avviso, esiste un legame stretto tra la tesi del Governo sul punto e la fondatezza dei motivi di ricorso formulati dai ricorrenti sotto il profilo di tale disposizione. A giudizio della Corte, questa eccezione va quindi riunita al merito dei motivi di ricorso relativi all’articolo 13 della Convenzione ed esaminata in quel contesto (paragrafo 207 infra).

II. SULLA QUESTIONE DELLA GIURISDIZIONE AI SENSI DELL’ARTICOLO 1 DELLA CONVENZIONE

63.Ai sensi dell’articolo 1 della Convenzione:

«Le Alte Parti contraenti riconoscono ad ogni persona sottoposta alla loro giurisdizione i diritti e le libertà enunciati nel titolo I della (...) Convenzione.»

1.Tesi delle partiIl Governo

64.Il governo convenuto riconosce che i fatti controversi si sono svolti a bordo di navi militari italiane. Tuttavia, nega che le autorità italiane abbiano esercitato un «controllo assoluto ed esclusivo» sui ricorrenti.

65.Sostiene che l’intercettazione delle imbarcazioni a bordo delle quali si trovavano i ricorrenti si iscriveva nel contesto del salvataggio in alto mare di persone in pericolo – rientrante negli obblighi imposti dal diritto internazionale, vale a dire dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare («Convenzione di Montego Bay») – e non può in nessun caso essere definita un’operazione di polizia marittima.
Le navi italiane si sarebbero limitate ad intervenire per prestare soccorso a tre imbarcazioni in difficoltà e mettere in sicurezza le persone a bordo. Avrebbero poi riaccompagnato in Libia i migranti intercettati, conformemente agli accordi bilaterali del 2007 e del 2009. Secondo il Governo, l’obbligo di salvare la vita umana in alto mare come prescritto dalla Convenzione di Montego Bay non comporta di per sé la creazione di un legame tra lo Stato e le persone interessate suscettibile di stabilire la giurisdizione di questo.

66.Nell’ambito del «salvataggio» dei ricorrenti, durato in totale solo dieci ore, le autorità avrebbero prestato agli interessati la necessaria assistenza umanitaria e medica e non avrebbero fatto in alcun modo ricorso alla violenza; esse non avrebbero effettuato abbordaggi né utilizzato armi. Il Governo ne conclude che il presente ricorso differisce dalla causa Medvedyev ed altri c. Francia ([GC], n. 3394/03, 29marzo 2010), in cui la Corte ha affermato che i ricorrenti rientravano nella giurisdizione della Francia tenuto conto del carattere assoluto ed esclusivo del controllo esercitato da questa su una nave in alto mare e sul suo equipaggio.I ricorrenti

67.Ad avviso dei ricorrenti, la giurisdizione dell’Italia non può essere messa in discussione nel caso di specie. Sin dalla loro salita a bordo delle navi italiane, essi si sarebbero trovati sotto il controllo esclusivo dell’Italia, la quale sarebbe stata quindi tenuta a rispettare tutti quanti gli obblighi derivanti dalla Convenzione e dai suoi Protocolli.

Fanno notare che, stando all’articolo 4 del codice italiano della navigazione, le navi battenti bandiera nazionale rientrano nella giurisdizione dell’Italia anche quando navighino fuori delle acque territoriali.I terzi intervenienti

68.Per i terzi intervenienti, conformemente ai principi di diritto internazionale consuetudinario e alla giurisprudenza della Corte, gli obblighi per gli Stati di non respingere i richiedenti asilo, anche «potenziali», e di assicurare loro l’accesso a procedimenti equi, hanno portata extraterritoriale.

69.Secondo il diritto internazionale in materia di tutela dei rifugiati, il criterio decisivo di cui tenere conto per stabilire la responsabilità di uno Stato non sarebbe se la persona interessata dal respingimento si trovi nel territorio dello Stato, bensì se essa sia sottoposta al controllo effettivo e all’autorità di esso.
I terzi intervenienti fanno riferimento alla giurisprudenza della Corte relativa all’articolo 1 della Convenzione e alla portata extraterritoriale del concetto di «giurisdizione», nonché alle conclusioni di altri organi internazionali. Essi sottolineano la necessità di evitare doppi criteri nel campo della tutela dei diritti dell’uomo e di fare in modo che uno Stato non sia autorizzato a commettere, al di fuori del proprio territorio, atti che mai sarebbero accettati all’interno di questo.

2.Valutazione della CortePrincipi generali relativi alla giurisdizione ai sensi dell’articolo 1 della Convenzione

70.Ai sensi dell’articolo 1 della Convenzione, l’impegno degli Stati contraenti consiste nel «riconoscere» (in inglese «to secure») alle persone rientranti nella loro «giurisdizione» i diritti e le libertà enunciati nella Convenzione (Soering c. Regno Unito, 7 luglio 1989, § 86, serie A n. 161, e Banković ed altri c. Belgio ed altri 16 Stati contraenti (dec.) [GC], n. 52207/99, § 66, CEDU 2001-XII). L’esercizio della «giurisdizione» è il presupposto perché uno Stato contraente possa essere ritenuto responsabile delle azioni od omissioni ad esso addebitabili e all’origine di una denuncia di violazione dei diritti e delle libertà enunciati nella Convenzione (Ilaşcu ed altri c. Moldova e Russia [GC], n. 48787/99, §311, CEDU 2004‑VII).

71.La giurisdizione di uno Stato, ai sensi dell’articolo 1, è principalmente territoriale (Banković, decisione sopra citata, §§ 61 e 67, e Ilaşcu, sopra citata, §312). Si presume che essa sia esercitata normalmente sull’intero territorio di quello Stato (Ilaşcu ed altri, sopra citata, § 312; e Assanidzé c. Georgia [GC], n.71503/01, § 139, CEDU 2004-II).
  72.In conformità al carattere essenzialmente territoriale del concetto di giurisdizione, la Corte ha ammesso solo in circostanze eccezionali che le azioni degli Stati contraenti compiute o produttive di effetti fuori del territorio di questi possano costituire esercizio da parte degli stessi della loro giurisdizione ai sensi dell’articolo 1 della Convenzione (Drozd e Janousek c. Francia e Spagna,26 giugno 1992, § 91, serie A n. 240; Banković, decisione sopra citata, § 67; e Ilaşcu ed altri, sopra citata, § 314).

73.Così, nella prima sentenza Loizidou (eccezioni preliminari), la Corte ha giudicato che, tenuto conto dell’oggetto e dello scopo della Convenzione, la responsabilità di una Parte contraente potesse essere chiamata in causa quando, in conseguenza di un’azione militare - legittima o meno -, quella Parte esercitava in pratica il suo controllo su una zona situata fuori del territorio nazionale (Loizidou c.Turchia (eccezioni preliminari) [GC], 23 marzo 1995, § 62, serie A n.310), il che è tuttavia escluso nel caso di una singola azione extraterritoriale istantanea, come nella causa Banković; il testo dell’articolo 1 non si presta infatti ad una concezione causale della nozione di «giurisdizione» (decisione sopra citata, § 75). In ciascun caso, l’esistenza di circostanze che richiedono e giustificano che la Corte concluda per l’esercizio extraterritoriale della giurisdizione da parte dello Stato deve essere valutata con riferimento ai fatti particolari della causa, ad esempio in caso di controllo assoluto ed esclusivo su una prigione o su una nave (Al-Skeini ed altri c.Regno Unito [GC], n. 55721/07, § 132 e 136, 7 luglio 2011; Medvedyev ed altri, sopra citata, § 67).

74.Sin dal momento in cui uno Stato esercita, tramite i propri agenti operanti fuori del proprio territorio, controllo e autorità su un individuo, quindi giurisdizione, esso è tenuto, in virtù dell’articolo 1, a riconoscere a quell’individuo i diritti e le libertà enunciati nel titolo I della Convenzione pertinenti al caso di quell’individuo. In questo senso, quindi, la Corte ammette ora che i diritti derivanti dalla Convenzione possano essere «frazionati e adattati» (Al-Skeini, sopra citata, §§ 136 e 137; a titolo di confronto, si veda Banković, sopra citata, § 75).

75.La giurisprudenza della Corte rivela casi di esercizio extraterritoriale della competenza da parte di uno Stato nelle cause riguardanti azioni compiute all’estero da agenti diplomatici o consolari, o a bordo di aeromobili immatricolati nello Stato in questione o di navi battenti la bandiera di detto Stato. In queste situazioni, basandosi sul diritto internazionale consuetudinario e su disposizioni convenzionali, la Corte ha riconosciuto l’esercizio extraterritoriale della giurisdizione da parte dello Stato interessato (Banković, decisione sopra citata, § 73, e Medvedyev ed altri,sopra citata, § 65).

 Applicazione nel caso di specie

76.Non è oggetto di contestazione dinanzi alla Corte la circostanza che gli avvenimenti controversi si siano svolti in alto mare, a bordo di navi militari battenti bandiera italiana. Il governo convenuto riconosce del resto che le motovedette della guardia di finanza e della guardia costiera sulle quali sono stati imbarcati i ricorrenti rientravano completamente nella giurisdizione dell’Italia.

77.La Corte osserva che, in virtù delle disposizioni pertinenti del diritto del mare, una nave che navighi in alto mare è soggetta alla giurisdizione esclusiva dello Stato di cui batte bandiera. Questo principio di diritto internazionale ha portato la Corte a riconoscere, nelle cause riguardanti azioni compiute a bordo di navi battenti bandiera di uno Stato, come anche degli aeromobili registrati, casi di esercizio extraterritoriale della giurisdizione di quello Stato (paragrafo 75 supra). Dal momento che vi è controllo su altri, si tratta in questi casi di un controllo de jure esercitato dallo Stato in questione sugli individui interessati.

78.La Corte osserva d’altra parte che questo principio è trascritto nel diritto nazionale, all’articolo 4 del codice italiano della navigazione, e non è contestato dal governo convenuto (paragrafo 18 supra). Ne conclude che il caso di specie costituisce proprio un caso di esercizio extraterritoriale della giurisdizione dell’Italia, suscettibile di chiamare in causa la responsabilità di quello Stato ai sensi della Convenzione.

79.D’altra parte l’Italia non può sottrarsi alla sua «giurisdizione» ai sensi della Convenzione definendo i fatti controversi un’operazione di salvataggio in alto mare. In particolare, la Corte non può condividere l’argomentazione del Governo secondo la quale l’Italia non sarebbe responsabile della sorte dei ricorrenti in considerazione del preteso ridotto livello del controllo che le sue autorità esercitavano sugli interessati al momento dei fatti.

80.Al riguardo, è sufficiente osservare che nella causa Medvedyev ed altri, sopra citata, i fatti controversi si erano verificati a bordo del Winner, un’imbarcazione battente bandiera di uno Stato terzo, ma il cui equipaggio era stato posto sotto il controllo di militari francesi. Nelle particolari circostanze di quella causa, la Corte ha preso in esame la natura e la portata delle azioni compiute dagli agenti francesi al fine di verificare se la Francia avesse esercitato sul Winner e sul suo equipaggio un controllo, almeno de facto, continuo ed ininterrotto (ibidem, §§ 66 e 67).

81.Ora, la Corte nota che nella presente causa i fatti si sono svolti interamente a bordo di navi delle forze armate italiane, il cui equipaggio era composto esclusivamente da militari nazionali. Ad avviso della Corte, sin dalla salita a bordo delle navi delle forze armate italiane e fino alla consegna alle autorità libiche, i ricorrenti si sono trovati sotto il controllo continuo ed esclusivo, tanto de jure quanto de facto, delle autorità italiane. Nessuna speculazione sulla natura e sullo scopo dell’intervento delle navi italiane in alto mare può indurre la Corte a concludere diversamente.

82.Pertanto, i fatti all’origine delle violazioni dedotte rientrano nella «giurisdizione» dell’Italia ai sensi dell’articolo 1 della Convenzione.
 

III. SULLE DEDOTTE VIOLAZIONI DELL’ARTICOLO 3 DELLA CONVENZIONE

83.I ricorrenti lamentano di essere stati esposti, a causa del loro respingimento, al rischio di subire torture o trattamenti inumani e degradanti in Libia, nonché nei rispettivi paesi di origine, vale a dire l’Eritrea e la Somalia. Invocano l’articolo 3 della Convenzione, così redatto:

«Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti.»

84.Ad avviso della Corte, l’articolo 3 della Convenzione è chiamato in causa sotto due diversi aspetti, da esaminarsi separatamente. In primo luogo, quanto al rischio corso dai ricorrenti di subire trattamenti inumani e degradanti in Libia, e, in secondo luogo, quanto al rischio per gli stessi di essere rimpatriati nei rispettivi paesi di origine.

A. Sulla dedotta violazione dell’articolo 3 della Convenzione a causa dell’esposizione dei ricorrenti al rischio di subire trattamenti inumani e degradanti in Libia

1.Tesi delle partiI ricorrenti

85.I ricorrenti sostengono di essere stati vittime di un respingimento arbitrario ed incompatibile con la Convenzione. Affermano di non avere avuto la possibilità di opporsi al loro rinvio in Libia e di chiedere tutela internazionale alle autorità italiane.

86.Ignari della loro effettiva destinazione, i ricorrenti sarebbero stati persuasi, durante tutto il viaggio a bordo delle navi italiane, di essere portati in Italia. Sarebbero quindi stati vittime di un vero e proprio «inganno» ad opera delle autorità italiane.

87.A bordo delle navi non sarebbe stato possibile procedere in alcun modo all’identificazione dei migranti intercettati e alla raccolta di informazioni sulla loro situazione personale. Non sarebbe stato quindi possibile prendere in considerazione nessuna domanda formale di asilo. Tuttavia, una volta in prossimità delle coste libiche, i ricorrenti nonché un gran numero di altri migranti avrebbero pregato i militari italiani di non sbarcarli al porto di Tripoli, da cui erano appena scappati, e di portarli in Italia.
I ricorrenti affermano di avere espresso esplicitamente la volontà di non essere consegnati alle autorità libiche. Contestano l’argomentazione del Governo secondo la quale una tale domanda non può essere assimilata ad una domanda volta ad ottenere tutela internazionale.

88.I ricorrenti sostengono poi di essere stati respinti verso un paese dove vi erano motivi sufficienti di ritenere che sarebbero stati sottoposti a trattamenti contrari alla Convenzione. Infatti, diverse fonti internazionali avrebbero evocato le condizioni inumane e degradanti in cui i migranti irregolari, in particolare di origine somala ed eritrea, erano detenuti in Libia e le precarie condizioni di vita riservate ai clandestini in quel paese.
Al riguardo, i ricorrenti fanno riferimento al rapporto del CPT dell’aprile 2010 nonché ai testi e ai documenti prodotti dalle parti terze sulla situazione in Libia.

89.La situazione, che avrebbe continuato a peggiorare in seguito, non poteva, a loro avviso, essere ignorata dall’Italia al momento della conclusione degli accordi bilaterali con la Libia e della messa in esecuzione del respingimento controverso.

90.Del resto, i timori e le preoccupazioni dei ricorrenti si sarebbero rivelati fondati. Tutti quanti avrebbero parlato di condizioni detentive inumane e, dopo la liberazione, di condizioni di vita precarie legate al loro status di immigrati irregolari.

91.Ad avviso dei ricorrenti, la decisione di rinviare in Libia i clandestini intercettati in alto mare costituisce una vera e propria scelta politica dell’Italia, volta a privilegiare una gestione poliziesca dell’immigrazione clandestina in spregio della tutela dei diritti fondamentali degli interessati.Il Governo

92.Il Governo sostiene innanzitutto che i ricorrenti non hanno provato in maniera adeguata la realtà dei trattamenti a loro dire contrari alla Convenzione che avrebbero subito. Non potrebbero quindi essere considerati «vittime» ai sensi dell’articolo 34 della Convenzione.

93.Il Governo afferma poi che il trasferimento dei ricorrenti in Libia è stato effettuato in virtù degli accordi bilaterali firmati nel 2007 e nel 2009 dall’Italia e dalla Libia. Detti accordi bilaterali si iscrivevano in un contesto di crescenti movimenti migratori tra l’Africa e l’Europa e sarebbero stati conclusi in uno spirito di cooperazione tre due paesi impegnati nella lotta contro l’immigrazione clandestina.

94.La cooperazione tra i paesi mediterranei in materia di controllo delle migrazioni e di lotta contro i crimini legati all’immigrazione clandestina sarebbe stata incoraggiata a più riprese dagli organi dell’Unione europea. Il Governo fa riferimento in particolare alla Risoluzione del Parlamento europeo n. 2006/2250 nonché al Patto europeo sull’immigrazione e sull’asilo, elaborato dal Consiglio europeo il 24 settembre 2008, i quali affermano la necessità per i paesi dell’UE di cooperare e di stabilire partenariati con i paesi d’origine e di transito al fine di rafforzare il controllo delle frontiere esterne dell’UE e di contrastare l’immigrazione clandestina.

95.Quanto agli avvenimenti del 6 maggio 2009, all’origine del presente ricorso, secondo il Governo si trattava di un’operazione di salvataggio in alto mare conforme al diritto internazionale. A dire del Governo, le navi militari italiane sono intervenute in maniera conforme alla Convenzione di Montego Bay e alla Convenzione internazionale sulla ricerca e sul salvataggio marittimi («Convenzione SAR»), per far fronte alla situazione di pericolo immediato in cui versavano le imbarcazioni e salvare la vita dei ricorrenti e degli altri migranti.
Secondo il Governo, il regime giuridico dell’alto mare è caratterizzato dal principio della libertà di navigazione. In questo contesto, non si sarebbe dovuto procedere all’identificazione degli interessati. Le autorità italiane si sarebbero limitate a prestare agli interessati la necessaria assistenza umanitaria. Il controllo dei ricorrenti sarebbe stato ridotto al minimo non essendo stata prevista alcuna operazione di polizia marittima a bordo delle navi.

96.Durante il trasferimento in Libia, i ricorrenti non avrebbero manifestato in alcun momento l’intenzione di chiedere asilo politico o un’altra forma di tutela internazionale. Secondo il Governo, un’eventuale domanda espressa dai ricorrenti al fine di non essere consegnati alle autorità libiche non può essere interpretata come una richiesta di asilo.
Al riguardo, esso afferma che, in caso di domanda di asilo, gli interessati sarebbero stati portati in territorio nazionale, come avvenuto in occasione di altre operazioni in alto mare effettuate nel 2009

97.Inoltre, stando al Governo, la Libia è un luogo di accoglienza sicuro. Lo dimostrerebbe il fatto che quello Stato ha ratificato il Patto internazionale delle Nazioni Unite relativo ai diritti civili e politici, la Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti e la Convenzione dell’Unione africana sui rifugiati in Africa, nonché la sua appartenenza all’Organizzazione internazionale per le migrazioni (OIM).
Sebbene non sia parte alla Convenzione delle Nazioni Unite relativa allo status dei rifugiati, la Libia avrebbe autorizzato l’HCR e l’OIM ad aprire uffici a Tripoli, cosa che avrebbe permesso di concedere lo status di rifugiati a numerosi richiedenti e di garantire loro tutela internazionale.

98.Il Governo richiama l’attenzione della Corte sulla circostanza che, in occasione della ratifica del Trattato di amicizia del 2008, la Libia si era espressamente impegnata a rispettare i principi della Carta delle Nazioni Unite e della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. L’Italia non avrebbe avuto alcun motivo di pensare che la Libia si sarebbe sottratta ai suoi impegni.
Questa circostanza e la presenza ed attività di uffici dell’HCR e dell’OIM a Tripoli giustificherebbero pienamente la convinzione dell’Italia che la Libia fosse un luogo di accoglienza sicuro per i migranti intercettati in alto mare. Del resto, per il Governo, il riconoscimento dello status di rifugiati concesso dall’HCR a molti richiedenti, compresi alcuni dei ricorrenti, prova inequivocabilmente che la situazione in Libia all’epoca dei fatti era conforme alle norme internazionali in materia di tutela dei diritti dell’uomo.

99.Il Governo ammette che la situazione in Libia è peggiorata a partire dall’aprile 2010, epoca in cui le autorità hanno chiuso l’ufficio dell’HCR a Tripoli, e poi si è deteriorata definitivamente in seguito agli eventi dell’inizio del 2011, ma sostiene che l’Italia ha cessato subito i rinvii di clandestini in Libia ed ha cambiato le modalità di soccorso ai migranti in alto mare, autorizzando a partire da quell’epoca l’ingresso nel territorio nazionale.

100.Il Governo contesta l’esistenza di una «prassi governativa» che consisterebbe, come affermato dai ricorrenti, nell’effettuare rinvii arbitrari in Libia. Al riguardo, esso definisce il ricorso un «manifesto politico ed ideologico» contro l’azione del governo italiano. Questo auspica che la Corte si limiti a prendere in esame unicamente gli accadimenti del 6 maggio 2009 e non metta in discussione le prerogative dell’Italia in materia di controllo dell’immigrazione, campo a suo avviso estremamente sensibile e complesso.I terzi intervenienti

101.Basandosi sulle dichiarazioni di numerosi testimoni diretti, Human Rights Watch e l’HCR denunciano il respingimento forzato di clandestini verso la Libia da parte dell’Italia. Nel corso del 2009, l’Italia avrebbe effettuato nove operazioni in alto mare, rinviando in Libia 834 persone di nazionalità somala, eritrea e nigeriana.

102.Human Rights Watch ha denunciato la situazione in Libia in più occasioni, in particolare attraverso rapporti pubblicati nel 2006 e nel 2009. Stando all’organizzazione, in assenza di un sistema nazionale di asilo in Libia, i migranti irregolari sono sistematicamente arrestati e spesso sottoposti a torture e violenze fisiche, compreso lo stupro. In spregio delle direttive delle Nazioni Unite in materia di detenzione, i clandestini sarebbero detenuti senza limitazione di tempo e senza alcun controllo giudiziario. Inoltre, le condizioni detentive sarebbero inumane. I migranti sarebbero torturati e non riceverebbero alcuna assistenza medica nei diversi campi del paese. In qualsiasi momento potrebbero essere respinti verso il paese d’origine o abbandonati nel deserto, dove andrebbero incontro a morte certa.

103.Il Centro AIRE, Amnesty International e la FIDH osservano che, da anni, rapporti di fonti affidabili dimostrano in maniera costante che la situazione in materia di diritti dell’uomo in Libia è disastrosa, in particolare per i rifugiati, i richiedenti asilo e i migranti, e soprattutto per le persone provenienti da alcune regioni dell’Africa, quali gli Eritrei e i Somali.
Ad avviso delle tre parti intervenienti, esiste un «obbligo di indagine» in caso di informazioni attendibili provenienti da fonti affidabili secondo le quali le condizioni detentive o di vita nello Stato di ricevimento non sono compatibili con l’articolo 3.
Conformemente al principio pacta sunt servanda, uno Stato non può sottrarsi ai propri obblighi imposti dalla Convenzione in virtù di impegni derivanti da accordi bilaterali o multilaterali in materia di lotta all’immigrazione clandestina.

104.Stando all’HCR, sebbene le autorità italiane non abbiano fornito informazioni dettagliate riguardo alle operazioni di respingimento, diversi testimoni sentiti dall’Alto Commissariato hanno fatto un racconto simile a quello dei ricorrenti. In particolare, essi avrebbero riferito che, per indurre le persone a salire a bordo delle navi italiane, i militari italiani avevano fatto credere loro che le avrebbero portate in Italia. Diversi testimoni avrebbero dichiarato di essere stati ammanettati e di avere subito violenze durante il trasferimento verso il territorio libico e una volta arrivati al centro di trattenimento. Inoltre, le autorità italiane avrebbero confiscato gli effetti personali dei migranti, compresi i certificati dell’HCR attestanti lo status di rifugiati. Diversi testimoni avrebbero inoltre confermato di ricercare tutela e di averlo espressamente comunicato alle autorità italiane durante le operazioni.

105.Secondo l’HCR, almeno cinque dei migranti respinti in Libia, riusciti poi a tornare in Italia, tra i quali il sig. Ermias Berhane, si sono visti concedere lo status di rifugiati in Italia. Per giunta, nel 2009, l’ufficio dell’HCR di Tripoli avrebbe concesso lo status di rifugiati a settantatre persone respinte dall’Italia, tra le quali quattordici dei ricorrenti. Sarebbe la prova che le operazioni condotte dall’Italia in alto mare comportano il rischio reale di respingimento arbitrario di persone bisognose di tutela internazionale.

106.Per l’HCR poi, nessuna delle argomentazioni avanzate dall’Italia per giustificare i respingimenti è accettabile. Né il principio di cooperazione tra Stati per la lotta al traffico illecito di migranti né le disposizioni relative al diritto internazionale del mare in materia di salvaguardia della vita umana in mare dispenserebbero gli Stati dall’obbligo di rispettare i principi di diritto internazionale.

107.La Libia, paese di transito e di destinazione dei flussi migratori provenienti dall’Asia e dall’Africa, non garantirebbe alcuna forma di tutela ai richiedenti asilo. Sebbene firmataria di un certo numero di strumenti internazionali in materia di diritti dell’uomo, essa non rispetterebbe molto i suoi obblighi. In assenza di un sistema nazionale di diritto di asilo, le attività in questo campo sarebbero state condotte esclusivamente dall’HCR e dai suoi partner. Malgrado ciò, l’azione dell’Alto Commissariato non sarebbe mai stata ufficialmente riconosciuta dal governo libico che, nell’aprile 2010, avrebbe intimato all’HCR di chiudere l’ufficio di Tripoli e di cessare le attività.
Tenuto conto di questo contesto, il governo libico non concederebbe nessuno status formale alle persone registrate come rifugiati dall’HCR, alle quali non sarebbe garantita alcuna forma di tutela.

108.Fino agli avvenimenti del 2011, le persone considerate immigrati clandestini sarebbero state detenute in «centri di trattenimento», la maggior parte dei quali visitati dall’HCR. Le condizioni di vita in detti centri sarebbero state molto mediocri e caratterizzate da sovraffollamento e servizi igienici inadeguati. La situazione sarebbe stata aggravata dalle operazioni di respingimento, che avrebbero accentuato il sovraffollamento e comportato un ulteriore peggioramento delle condizioni sanitarie, all’origine di un accresciuto bisogno di assistenza di base ai fini della sopravvivenza stessa delle persone.

109.Secondo la Columbia Law School Human Rights Clinic, l’immigrazione clandestina dal mare non è un fenomeno nuovo e la comunità internazionale riconosce ormai sempre più la necessità di limitare le pratiche di controllo dell’immigrazione, compresa l’intercettazione in mare, suscettibili di ostacolare l’accesso dei migranti alla tutela e quindi di esporli al rischio di tortura.

2.Valutazione della CorteSulla ricevibilità

110.Ad avviso del Governo, i ricorrenti non possono sostenere di essere «vittime», ai sensi dell’articolo 34 della Convenzione, dei fatti da loro denunciati. Esso contesta l’esistenza del rischio reale, per i ricorrenti, di essere sottoposti a trattamenti inumani e degradanti in conseguenza del respingimento. La valutazione di un tale rischio dovrebbe farsi sulla base di fatti seri e accertati riguardanti la situazione di ciascun ricorrente. Ora, le informazioni fornite dagli interessati sarebbero vaghe ed insufficienti.

111.Secondo la Corte, la questione sollevata da questa eccezione è strettamente connessa a quella da affrontare durante l’esame della fondatezza dei motivi di ricorso relativi all’articolo 3 della Convenzione. In particolare, la disposizione impone alla Corte di verificare l’eventuale esistenza di motivi seri ed accertati per ritenere che gli interessati corressero il rischio reale di essere sottoposti a tortura o a trattamenti inumani o degradanti in conseguenza del rinvio. E’ quindi opportuno riunire la questione all’esame del merito.

112.A giudizio della Corte, questa parte del ricorso pone complesse questioni di fatto e di diritto, la cui risoluzione richiede un esame nel merito; ne consegue che essa non è manifestamente infondata ai sensi dell’articolo 35 § 3 a) della Convenzione. Non essendo stato rilevato nessun altro motivo d’irricevibilità, essa deve dichiararsi ricevibile.Sul merito

i.Principi generali

α) Responsabilità degli Stati contraenti in caso di espulsione

113.Secondo la giurisprudenza della Corte, gli Stati contraenti hanno, in virtù di un principio di diritto internazionale ben consolidato e fatti salvi gli impegni derivanti per loro da trattati, ivi compreso dalla Convenzione, il diritto di controllare l’ingresso, il soggiorno e l’allontanamento dei non residenti (si vedano, tra molte altre, Abdulaziz, Cabales e Balkandali c.Regno Unito, 28 maggio 1985, § 67, serie A n. 94; e Boujlifa c. Francia, 21ottobre 1997, § 42, Raccolta delle sentenze e decisioni 1997-VI). Inoltre, la Corte osserva che né la Convenzione né i suoi Protocolli sanciscono il diritto all’asilo politico (Vilvarajah ed altri c. Regno Unito, 30 ottobre 1991, §102, serie A n. 215; e Ahmed c. Austria, 17 dicembre 1996, § 38, Raccolta 1996-VI).

114.Tuttavia, l’espulsione, l’estradizione ed ogni altra misura di allontanamento di uno straniero da parte di uno Stato contraente possono sollevare un problema sotto il profilo dell’articolo 3, quindi chiamare in causa la responsabilità dello Stato in questione ai sensi della Convenzione, quando esistano motivi seri ed accertati per ritenere che l’interessato, se espulso verso il paese di destinazione, vi correrà il rischio reale di essere sottoposto ad un trattamento contrario all’articolo 3. In questo caso, l’articolo 3 implica l’obbligo di non espellere la persona in questione verso quel paese (Soering, sopra citata, §§ 90-91; Vilvarajah ed altri, sopra citata, § 103; Ahmed,sopra citata, § 39; H.L.R. c. Francia, 29 aprile 1997, § 34, Raccolta 1997-III; Jabari c. Turchia, n. 40035/98, §38, CEDU 2000-VIII; e Salah Sheekh c. Paesi Bassi, n. 1948/04, § 135, 11 gennaio 2007).

115.In questo tipo di cause, la Corte è quindi chiamata a valutare la situazione nel paese di destinazione in base alle esigenze dell’articolo 3. Quando si accerti o possa accertarsi una responsabilità sotto il profilo della Convenzione, è quella dello Stato contraente, per un’azione il cui risultato diretto è di esporre qualcuno al rischio di maltrattamenti proibiti (Saadi c. Italia [GC], n. 37201/06, § 126, 28 febbraio 2008).

β) Elementi presi in considerazione per valutare il rischio di trattamenti contrari all’articolo 3 della Convenzione

116.Per stabilire se esistano motivi seri ed accertati per credere ad un rischio reale di trattamenti incompatibili con l’articolo 3, la Corte si basa sull’insieme di elementi ad essa forniti o, all’occorrenza, procuratisi d’ufficio (H.L.R. c. Francia, sopra citata, § 37; e Hilal c. Regno Unito, n.45276/99, § 60, CEDU 2001-II). In cause quali quella che ci occupa, la Corte è infatti tenuta ad applicare criteri rigorosi al fine di valutare l’esistenza di un tale rischio (Chahal c. Regno Unito, 15novembre 1996, § 96, Raccolta1996‑V).

117.Per verificare l’esistenza del rischio di maltrattamenti, la Corte deve prendere in esame le prevedibili conseguenze del rinvio di un ricorrente nel paese di destinazione, tenuto conto della situazione generale esistente in tale paese e delle circostanze proprie del caso dell’interessato (Vilvarajah ed altri, sopra citata, §108 in fine).

118.A tal fine, quanto alla situazione generale esistente in un paese, spesso la Corte ha attribuito importanza alle informazioni contenute nei recenti rapporti di associazioni internazionali indipendenti di difesa dei diritti dell’uomo quali Amnesty International, o di fonti governative (si veda, ad esempio, Chahal,sopra citata, §§ 99-100; Müslim c. Turchia, n. 53566/99, § 67, 26 aprile 2005; Said c. Paesi Bassi, n.2345/02, § 54, CEDU 2005-VI; Al-Moayad c. Germania (dec.), n.35865/03, §§ 65-66, 20 febbraio 2007; e Saadi, sopra citata, § 131).

119.Nelle cause in cui un ricorrente sostiene di appartenere ad un gruppo esposto sistematicamente alla pratica di maltrattamenti, la tutela dell’articolo 3 entra in gioco, secondo la Corte, quando l’interessato dimostri, eventualmente attraverso le fonti menzionate nel paragrafo precedente, che vi sono motivi seri ed accertati di credere all’esistenza della pratica in questione e alla

Üyelik Paketleri

Dünyanın en kapsamlı hukuk programları için hazır mısınız? Tüm dünyanın hukuk verilerine 9 adet programla tek bir yerden sınırsız ulaş!

Paket Özellikleri

Programların tamamı sınırsız olarak açılır. Toplam 9 program ve Fullegal AI Yapay Zekalı Hukukçu dahildir. Herhangi bir ek ücret gerektirmez.
7 gün boyunca herhangi bir ücret alınmaz ve sınırsız olarak kullanılabilir.
Veri tabanı yeni özellik güncellemeleri otomatik olarak yüklenir ve işlem gerektirmez. Tüm güncellemeler pakete dahildir.
Ek kullanıcılarda paket fiyatı üzerinden % 30 indirim sağlanır. Çalışanların hesaplarına tanımlanabilir ve kullanıcısı değiştirilebilir.
Sınırsız Destek Talebine anlık olarak dönüş sağlanır.
Paket otomatik olarak aylık yenilenir. Otomatik yenilenme özelliğinin iptal işlemi tek butonla istenilen zamanda yapılabilir. İptalden sonra kalan zaman kullanılabilir.
Sadece kredi kartları ile işlem yapılabilir. Banka kartı (debit kart) kullanılamaz.

Tüm Programlar Aylık Paket

9 Program + Full&Egal AI
Ek Kullanıcılarda %30 İndirim
Sınırsız Destek
350 TL
199 TL/AY
Kazancınız ₺151
Ücretsiz Aboneliği Başlat